giovedì 11 luglio 2013

Destini intrecciati


L'esplosione che ha sventrato un centro commerciale nel sobborgo sciita di Beir al-Abid, a Beirut, riposiziona bruscamente il baricentro dell'attenzione internazionale dal Cairo al Vicino Oriente, là dove la crisi siriana sta assumendo sempre più le caratteristiche di un buco nero che tutto risucchia. 

I due focolai, in realtà, non sono slegati: nell'ultimo anno, fili invisibili hanno accorciato le distanze fra l'Egitto, gigante sunnita impolverato sul finire dell'era Mubarak, e l'Iran, burattinaio mediorientale che in Siria ha molto da perdere. 

Appena eletto presidente della Repubblica egiziana, Mohammed Morsi scelse come seconda tappa della sua tournée all'estero, il 30 agosto scorso, la Repubblica islamica iraniana (la prima fermata fu invece a Pechino, il 29 agosto, ndr). Un segnale allarmante per Washington e Riad, che della spaccatura fra sunniti e sciiti hanno fatto un postulato matematico. Anzi finanziario. E anche per Israele, abituata ad addormentarsi nell'incubo del nucleare iraniano. 

L'intervento di Morsi al Vertice delle nazioni non allineate, organizzato appunto a Teheran, non fu morbido nei confronti del regime di Damasco, percepito dagli ayatollah come sangue del proprio sangue, ma si trattò comunque della prima visita di un presidente egiziano in terra sciita dal 1979. 

Poi, il 5 febbraio di quest'anno l'altrettanto storica visita dell'omologo Ahmadinejad al Cairo, ricevuto dal fratello musulmano Morsi. I due, a margine del summit della Cooperazione islamica, parlarono di Siria, Palestina ed equilibri regionali. “L'assetto geopolitico regionale sarebbe diverso, se Egitto e Iran avessero posizioni condivise”, disse il presidente iraniano, mentre il collega barbuto annuiva al suo fianco. 

E' chiaro che quelle due mani strette davanti alle telecamere devono aver tormentato i sonni di molti. Mentre i due capi di Stato discutevano – e gli uomini d'affari mettevano le basi di futuri progetti congiunti – fuori i salafiti (musulmani sunniti conservatori) protestavano contro qualsiasi concessione fatta agli eretici sciiti. 

Va da sé che, quando per Morsi, lo scorso 30 giugno, le cose hanno cominciato a volgersi al peggio, Teheran - e non Tel Aviv, né Washington, né Riad - ha invocato il rispetto del voto democratico in terra egiziana. Altrettanto logico che gli 'alleati' salafiti abbiano fatto lo sgambetto al presidente per il suo flirt orientale (ma non solo). 

Qui, è ovvio, non sono in discussione le scorribande interne dei Fratelli egiziani, che poco o nulla hanno a che vedere con la cultura democratica, ma, in un'ottica allargata, il peso che avrebbe potuto giocare una leadership forte al Cairo per le sorti di Siria e Libano. 

Se è vero che Teheran, dal conflitto damasceno, punta a veder riconosciuto il proprio peso politico – dando ormai per scontato che Assad è un cavallo zoppo – e se è altrettanto vero che Qatar e Arabia Saudita non hanno nessuna intenzione di accordare tale riconoscimento, un'intermediazione in grado di parlare ai due estremi del tavolo sarebbe stata salvifica. 

Saltata per aria la sponda dialogante egiziana, lo scontro senza quartiere fra sunnismo integralista e sciismo rischia ora di tracimare in Libano con forza dirompente.  

(Federica Zoja per Avvenire, 10 luglio 2013)

Fratelli regionali


L'esito della battaglia in corso fra Forze armate egiziane, invocate da una parte di popolazione, e Fratellanza musulmana è cruciale non solo per il grande Paese nordafricano, ma per l'intero quadrante geografico. 

Lo sa bene Mohammed Badie, guida suprema degli Ikhwan al-Muslimun al-masriun (Fratelli musulmani egiziani) dal 2009, che ha già operato una precisa scelta: cresciuto negli anni della clandestinità e della dissimulazione, vista l'alba di una nuova repressione da parte dei generali, ha chiamato i suoi all'estrema resistenza. 

Per il momento, nessun leader della Confraternita né del partito islamista Libertà e giustizia ha pronunciato il termine jihad, ma si intuisce che la tentazione è forte. In quel caso, sarà determinante il ruolo degli altri Fratelli regionali. Badie potrebbe cercare l'appoggio dei cugini tunisini e libici, ma a giudicare dalle cronache ci sono grattacapi interni per tutti. 

A Tunisi, la Fratellanza è rappresentata dal partito di maggioranza Ennahda (Rinascita): il coinvolgimento nel governo di voci antagoniste ha ridotto la reazione di rigetto da parte dell'anima laica del Paese, ma il tentativo di mettere a punto una carta costituzionale islamizzata non è stato digerito dalla popolazione. 

Ecco le accuse contro Ennahda: bulimia di potere, inesperienza nell'amministrazione e soprattutto nella gestione della crisi economica. All'inizio del mese di giugno ha visto la luce una petizione Tamarrod anche in Tunisia. Le principali richieste sono lo scioglimento dell'Assemblea costituente (Anc), l'annullamento della bozza della nuova Costituzione e la nomina di una commissione di esperti che si occupino della Legge fondante per il Paese, tenendo conto di tutte le componenti della società. I ribelli tunisini chiedono anche elezioni anticipate. 

“Oggi l'Egitto, domani la Tunisia. Abbasso i Fratelli musulmani, rivoluzione fino alla vittoria”, gridavano centinaia di manifestanti, riuniti di fronte all'ambasciata egiziana di Tunisi nei giorni scorsi. Rachid Ghannouchi, numero uno di Ennahda, e l'ex premier Hamadi Jabali hanno preso le distanze dall'atteggiamento totalitario di Erdogan in Turchia e Morsi in Egitto, seppure dicendosi preoccupati per gli interventi dell'esercito. Gli islamisti moderati tunisini sono contestati anche dai salafiti, che spingono per l'applicazione della sharìa, a costo di incendiare il clima sociale. 

Poi ci sono i Fratelli di Libia, con il partito Giustizia e costruzione e altre sigle minori che vantano sei ministri nell'attuale governo. Braccati da Muammar Gheddafi – ma coccolati dal figlio e delfino Seif al-Islam – gli Ikhwan libici non hanno il medesimo radicamento che in Egitto, per questo guardano alla Guida suprema egiziana come loro riferimento. Alcuni elementi potrebbero dare sostegno operativo ai cugini del Cairo, ma in clandestinità, perché non godono di grandi simpatie fra la popolazione. 

Da una costola della Fratellanza egiziana proviene anche quella giordana, accusata di voler cacciare il casato hashemita da Amman, sebbene coinvolta nella vita politica da 40 anni. 

Ma i Fratelli che hanno più da perdere da un effetto domino egiziano sono quelli turchi, al potere dal 2002 con il partito Giustizia e sviluppo di Recep Tayyep Erdogan: la spinta islamizzante sembra ormai aver saturato la società turca. Sono Fratelli in esilio gli elementi di spicco dell'opposizione politica al regime siriano: ospitati da Ankara, vorrebbero imitarne la recente storia. 

E ha uguale Dna anche Hamas, nato nel 1987 dalla Fratellanza musulmana palestinese. A Gaza, Hamas è messa in discussione da frange oltranziste. Sulla sponda della Striscia, il richiamo del Cairo potrebbe trovare orecchie attente.

(Federica Zoja per Avvenire, 7 luglio 2013)

Strana coppia


In due anni è cambiato tutto, eppure sembra che non sia cambiato niente: fra gli egiziani e i loro generali è ufficiale il ritorno di fiamma. 

Un fallimento storico per la borghesia islamista, che ha aspettato la propria chance per mezzo secolo e ha bruciato in poco più di un anno il credito guadagnato nelle prigioni di Anwar Sadat e Hosni Mubarak. E un successo per l'esercito, che si conferma ancora una volta nella storia del Paese nordafricano lo scoglio cui aggrapparsi quando tutto volge al peggio. 

Solo “protezione”, come scrive l'attivista Dalia Ziadam, dirigente del Centro Ibn Khaldun per gli studi democratici, oppure nuova dittatura lo dirà la storia. Per ora alcune valutazioni, però, si possono azzardare: rimosso nel 2011 Hosni Mubarak – che è stato condannato a morte nel corso di un primo processo e ora ne affronta un secondo – alcune figure strategiche all'ombra del suo regime trentennale, come il generale Sami Enan, hanno mantenuto intatto prestigio e influenza. 

Se infatti in Yemen, allo smantellamento del clan Saleh a fine 2011 sta facendo seguito la riduzione del potere economico e politico delle Forze armate, in Egitto ciò non è avvenuto: ancora oggi si ritiene che non meno del 45% dell'economia egiziana sia controllato dall'esercito, beneficiario sotto Mubarak di terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese. 

I militari hanno goduto dei proventi non solo dell'industria bellica – in particolare negli anni '80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan – ma anche di quella civile e non li hanno perduti. Le F.a. traggono guadagno dall'industria alimentare, tessile, manifatturiera, dall'agricoltura, dal turismo, dall'edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi. Anche ora, tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato. 

Una volta in pensione, oggi come fino a due anni fa, comandanti e generali si danno alla politica oppure si convertono al business (come il rivale di Mohammed Morsi alle presidenziali del 2012, Ahmed Shafik). Un intreccio fra affari, politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano, anche se adesso Washington storce il naso nel concedere i consueti 1,3 miliardi di dollari per finanziare la stabilità dell'alleato arabo. 

A gestirli è sempre stato il ministero della Difesa e della produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6 miliardi di dollari. Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito (il più grande del mondo arabo), marina, aeronautica e aviazione militare, cui si aggiungono forze paramilitari ancora in essere. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però fanno capo al ministero degli Interni. 

Dopo la Rivoluzione, alcuni giudici intrepidi hanno messo in piedi processi per corruzione per le divise più esposte, ma senza esito: l'imputato Enan, per esempio, è stato Consigliere militare della presidenza Morsi senza colpo ferire. Un anno fa, l'ennesimo scandalo: l'esercito egiziano si è 'regalato' un complesso sportivo da sogno nel deserto a Est del Cairo (stadio, piscine, albergo a cinque stelle, strada a quattro corsie per arrivarci, ecc..), realizzato a cavallo fra 2010 e 2012. 

Eppure, in un sondaggio condotto dal suddetto Centro Ibn Khaldun (fondato da Saad Eddin Ibrahim, professore di sociologia acerrimo nemico di Mubarak, negli anni '90) nel mese di marzo, l'88% degli intervistati auspicava il ritorno dei militari al potere. E di questa maggioranza, la massima parte aveva meno di 35 anni. Insomma, se anche Morsi dovesse cadere, non c'è altra alternativa se non quella armata.

(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)

Dal divano alla piazza


Si è cominciato a parlare di un partito del Divano (in arabo egiziano kanaba, termine derivato da canapé, ndr), nell'autunno del 2011, quando coloro che avevano fatto la rivoluzione dei 18 giorni puntarono il dito contro gli altri. 

Quelli che erano rimasti in silenzio, appunto seduti sul divano di casa, mentre i più intrepidi si facevano massacrare dagli uomini di Hosni Mubarak. Rubata agli attivisti, la parola è stata utilizzata da politologi e mezzi di comunicazione per dipingere la maggioranza dei cittadini egiziani, non necessariamente vili o indifferenti. Semplicemente troppo occupati a sopravvivere, fra famiglia, miseri doppi lavori e disservizi sociali, per scendere nelle strade. 

Ebbene, dopo un anno di strapotere islamista, anche quelli di Hizb al-Kanaba, che proprio nella Fratellanza musulmana avevano creduto per il futuro dei propri figli, hanno rotto il silenzio e abbandonato il salotto di casa. La maggioranza silenziosa, rimasta tale per oltre un anno mentre la nuova dirigenza politica faceva man bassa di tutti i posti chiave nell'amministrazione del Paese, ha evidentemente toccato il fondo. E senza bisogno di sigle politiche, richiami religiosi né road map ha già tolto la fiducia al presidente della Repubblica Mohammed Morsi. 

Alcune riflessioni, inevitabili: né i vertici né tantomeno la base dell'Egitto di oggi hanno digerito le regole del galateo democratico, che impongono una serie di passaggi obbligati e assunzioni di responsabilità. Inoltre, la petizione Tamarod (Ribellione), semplice nel linguaggio e negli obiettivi, ha avuto il tempismo che era mancato a tutte le iniziative precedenti, cosiddette marce da un milione di cittadini cui partecipavano poche centinaia di persone.

Ma soprattutto, la leadership politica islamista non ha colto il disagio logorante in cui, nell'ultimo anno e mezzo, ha vissuto la grande massa silenziosa dei concittadini: interruzioni di corrente elettrica continue (un tempo frequenti solo in estate, a causa del consumo di elettricità da parte degli impianti di condizionamento dell'aria), code ai distributori di benzina e gas (alcune finite nel sangue, con gli utenti infuriati gli uni con gli altri), aumento dei prezzi dei beni di prima necessità senza precedenti, cumuli di immondizie abbandonati per giorni, diffuso senso di insicurezza anche in aree residenziali dei centri urbani, infrastrutture in decadimento. 

E fame, tanta fame per almeno un quarto della popolazione, con meno di un dollaro al dì. Un altro quarto, invece, sopravvive con poco più di un dollaro al giorno. La Banca mondiale ha cominciato a lanciare l'allarme in marzo, preannunciando una “catastrofe economica”: in concreto, non ci sono soldi per importare grano (il 75% del fabbisogno interno arriva dall'estero) e questo vuol dire che milioni di persone faranno la coda ai forni, sotto il sole di mezza estate, inutilmente. 

Senza soldi, va da sé, l'Egitto non può importare niente di niente. Le riserve sono crollate da 36 miliardi di dollari a 13 nel biennio. Il presidente Morsi, tuttavia, resiste da oltre un anno al Fondo monetario internazionale, pronto a concedere 4,8 miliardi di dollari di prestito a certe condizioni: tanto, pare abbia detto ai fedelissimi, “il mondo non permetterà che un grande Paese come l'Egitto faccia fallimento”.

(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)

Torna l'esercito, ma islamizzato


Era il 12 agosto del 2012 quando il presidente egiziano Mohammed Morsi, in carica da neanche un mese e mezzo, silurava il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi, capo delle forze armate, ministro della Difesa. L'uomo più potente in Egitto nell'interregno fra la caduta di Hosni Mubarak e le prime elezioni presidenziali democratiche. Di fatto, l'ultima vestigia del regime uscente. 

Con un decreto presidenziale di dubbia legittimità, Morsi faceva carta straccia della dichiarazione costituzionale con cui i suoi poteri erano stati arginati – commissionata dallo stesso feldmaresciallo alla Corte costituzionale prima del secondo turno elettorale, in giugno - e relegava Tantawi a una carica onorifica. 

Al suo posto il capo dell'intelligence militare Abdel Fattah al-Sissi. Stessa fine per il capo di stato maggiore della difesa (e numero 2 del Consiglio Supremo della Difesa), generale Sami Anan, sostituito con il generale Sidki Sobhi. Nei piani di Morsi, secondo fonti interne alla Fratellanza musulmana, rimuovere le figure in grado di orchestrare un colpo di Stato contro di lui, percepito come altamente probabile nelle prime settimane di presidenza. 

Per l'opinione pubblica, un dovuto ricambio generazionale fra Tantawi, pluridecorato in tre guerre arabo-israeliane e nel Golfo, nonché spalla di Mubarak per decenni, e al-Sissi, più leggero di vent'anni. E, secondo alcuni analisti egiziani, anch'egli Fratello fino all'osso come Morsi: studi di base in Egitto, specializzazioni negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; uomo di intelligence con illustri contatti in Arabia Saudita; una moglie coperta con il velo integrale. 

E discusse dichiarazioni a difesa dei “test di verginità sulle donne” che presero parte alle proteste contro Mubarak, “fatti nel loro interesse, per difenderle dall'accusa di prostituzione”. Per molti, l'uomo chiave delle prossime ore, sufficientemente ansioso di protagonismo da voltare la schiena a Mohammed Morsi. Quanto alla sua autonomia dalla Guida Suprema della Confraternita, Mohammed Badie, è tutta da verificare.

(Federica Zoja per Avvenire, 2 luglio 2013)

Il movimento sorto dal nulla


Il “movimento sorto dal nulla”, così Tamarod (in italiano Ribellione, ndr) è stato a più riprese etichettato dagli organi di stampa, giunge oggi nelle piazze egiziane con il suo carico di scontento nei confronti del presidente della Repubblica Mohamed Morsi e del blocco di potere islamista - moderato e conservatore insieme – che ha preso le redini della nazione un anno fa. 

Dopo la determinazione dimostrata dalla rivolta popolare del 2011, non sorprendono più le immagini della folla decisa a fare sentire la propria voce. Eppure l'effetto sorpresa di questa nuova fase della Primavera egiziana c'è tutto, perché questa ribellione è altro ancora. 

Innanzitutto è più giovane, anagraficamente e politicamente: a un nucleo di attivisti di lungo corso, nel ruolo di coordinatori, fa da manovalanza un fiume di volontari, in maggioranza sotto i 30 anni, che hanno trasformato un piccolo appartamento di Wust al-Balad, il quartiere centrale del Cairo, nel cuore pulsante della protesta popolare. 

Poi, Tamarod non ha cercato il supporto dei cosiddetti partiti di opposizione organizzati, non ha ambizioni per le elezioni parlamentari del prossimo ottobre, non ha piattaforme programmatiche. Dalle dichiarazioni rilasciate in questi giorni si deduce che gli stessi fondatori non avrebbero mai potuto immaginare un boom di adesioni simili: secondo gli ultimi conteggi, dal 28 aprile scorso, 22 milioni di egiziani hanno sottoscritto la petizione per l'interruzione anticipata del mandato presidenziale (altrimenti in essere fino al giugno 2016, ndr), scaricandola da internet e firmandola con tutti i propri riferimenti. 

Ha spiegato Ahmed Adel, 27enne di professione grafico, fra gli ideatori dell'iniziativa: “Abbiamo iniziato a far circolare il foglio nelle strade del Cairo e, nel giro di dieci giorni, avevamo già 2 milioni di firme”. Solo a treno partito, gli emissari delle varie sigle rivali dei Fratelli musulmani hanno cominciato a fare capolino, chiedendo: “In che modo possiamo aiutarvi?”. 

E pensare che i portavoce di Kefaya (Basta!), movimento anti-Mubarak nato nel 2004, avevano annunciato a metà maggio: “Tamarod non nasce sotto gli auspici di Kefaya”. Nelle ricostruzioni giornalistiche di mezzo mondo, invece, è il volto di Mohamed al-Baradei, del Fronte di salvezza nazionale, a dominare la scena. Lui che, nei sondaggi nazionali, è noto solo a un egiziano su quattro. 

“Tamarod sta superando tutti i predecessori per originalità, organizzazione e impeto”, ha scritto l'editorialista Azmi Ashour sul quotidiano filo-governativo al-Ahram, individuando nella “semplicità” l'asso nella manica della petizione, la prima efficace nella storia del Paese. E poi, è vincente la “trasversalità” della protesta, che “va là dove i politici professionisti non possono andare”: in tutte le case, “senza differenze di credo religioso”, né di classe sociale di appartenenza, né di area geografica. 

Con tutta “l'efficacia dei social network”, utilizzati con una nuova consapevolezza: oggi in piazza c'è Tahrir 2.0.. Infine, Tamarod fa appello “ai valori essenziali di una nazione, condivisibili da tutti”, conclude Ashour. Quindi, al di là delle analisi sociologiche, per dirla alla maniera dei rivoltosi: l'uomo politico Morsi è “un fallimento in tutti i sensi del termine.. inadatto ad amministrare un Paese delle dimensioni dell'Egitto”. 

(Federica Zoja per Avvenire, 28 giugno 2013)

sabato 10 novembre 2012

Presto la campagna del Mali?

Il Mali come l'Afghanistan o la Somalia, devastato dalla furia islamista radicale, dalle divisioni tribali, dall'assenza di un controllo centrale. 
Secondo indiscrezioni diplomatiche, ormai è questione di settimane e una missione militare internazionale tenterà di dare a Bamako quel sostegno logistico indispensabile per riprendere la sovranità territoriale, persa ormai da un biennio.
Diverse le piste battute in queste ore: si cerca di instaurare un dialogo con i gruppi laici fra i Tuareg del Nord, disponibili a distanziarsi dagli islamisti. Di convincere il fragile esecutivo a indire elezioni. Di consolidare le posizioni degli Stati africani occidentali, prima ancora che raggiungere una comunione di intenti in seno all'Unione africana.
Il dialogo è la strada privilegiata dall'amministrazione Obama, ora libera di occuparsi di nuovo del continente africano.
Ma si moltiplicano le voci di progetti bellicosi di Parigi, che ha ancora tanti - troppi - interessi nelle ex colonie. Un intervento francese nel quadrante sub-sahariano, si sa, sarebbe mal digerito da Algeria e Marocco. Meglio una missione africana, come in Somalia, appoggiata da Onu e Ue.
Nel frattempo, Strasburgo ha dato il la, in agosto, a Eucap Sahel Niger, iniziativa tesa a sostenere Niamey nella lotta al terrorismo: durata 2 anni, finanziamento 8,7 milioni di euro, basi distaccate a Bamako (Mali), appunto, e Nouakchott (Mauritania).
Chissà che per una volta, consapevole del rischio polveriera in Mali, Bruxelles non si muova prima di tutti.